martedì 12 settembre 2006

quello che rimane sulla spiaggia dell'11 settembre


Passato lo tsunami emozionale del quinto nine eleven, l'onda lascia sul campo dopo la lunga ritirata detriti maleodoranti e taglienti. Ci si ripete da più parti che il mondo è cambiato, che quel'11 settembre di cinque anni fa è stato un punta di svolta per la storia e che anche la nostra visione del mondo non è più quella di prima; ma seguendo i notiziari e leggendo i giornali non si respirano atmosfere diverse dai tempi in cui le twin towers ancora si ergevano, i fanatismi non sono nati quel giorno, le guerre neanche, le rivendicazioni, i rapimenti, i kamikaze, i diritti negati, i soprusi dei più forti, i mercati pilotati, gli interessi di pochi e le sofferenze di molti non sono figli dell'11 settembre. Guardando bene quello che è cambiato è nient'altro che un atteggiamento, l'atteggiamento di chi raggiunge il consenso per procedere all'affermazione cruenta di quello che nel discorso alla nazione Bush stesso ha definito il proteggere lo stile di vita occidentale.
Ma quello che spaventa di più, è che Bush è sincero. Lo stile di vita occidentale è basato sul petrolio, che nel gioco beffardo del destino, oppure si potrebbe dire nel migliore dei sistemi di bilanciamento del potere (vi ricordate il gioco da bambini "uno taglia l'altro sceglie?"), è nelle mani di quella parte del mondo che guarda all'occidente con occhi alieni, lontani, diversi. Ed è vero che questa guerra, osteggiata da molti, voluta da pochi, pianta da tutti, è la guerra che da sempre l'occidente combatte contro tutto quello che è fuori di sè; Brenno che saccheggia Roma ne è affascinato dalla potenza e dalla cultura, dallo stile di vita, e noi di questo siamo terrorizzati: la nostra coscienza storica, atavica, teme il barbarus che ci toglie l'oro di Roma perchè lo vuole per se. Quell'oro, che a guardar bene, di Roma non è avendolo depredato nelle provincie dell'impero.
Quant'è cambiato il mondo? O meglio, quanto poco il mondo è maturato, nei secula seculorum, da quel Romanus imperus che si poteva permettere anfiteatri e terme a spese dei popoli conquistati? Ma la domanda nascosta è un'altra, e precisamente: possiamo permetterci di perdere Roma? Siamo disposti a rinunciare anche a una sola parte del nostro benessere per far cessare immediatamente tutte le guerre?
La risposta è amara. Ed ha l'amarezza della considerazione che nel mondo protetto dal patto atlantico è fiorente il seme del progredire, della cultura libera e della libertà d'espressione. Non è la libertà romantica, ma è la migliore libertà possibile, perchè ci dà i mezzi, o la possibilità di guadagnarli, per scegliere, discriminante questa che ci fa essere padroni della nostra vita.
Cosa c'è fuori dai confini di Roma? Non più leones, ma culture che soffocano le donne, i liberi pensieri, la libertà di amare, di avere e di essere.
Ho conosciuto gente di tutto il mondo. Ho imparato che ogni singolo uomo di qualsiasi parte della terra, è proprio come me; pensa, desidera, agisce come me. Le stesse fantasie, la stessa ricerca della realizzazione, lo stesso bisogno di essere amati, la stesso piacere nel fare l'amore. La differenza è nella possibilità di espressione, che io ho, e che molti non posseggono se non nel privato dove si riscopre l'individuo. Ma è una espressione che non è bloccata dai governi o dai sacerdoti, bensì dalla formazione culturale che li rende allo stesso tempo vittime e partecipi dell'offesa perpretata alla lucentezza espressiva della libertà. Non possono scegliere perchè non vogliono scegliere.
Non possono vincere, invero, ma noi possiamo perdere. Chi ha combattuto Roma, prima l'ha distrutta, poi ne ha acquisito la cultura. I barbari sono finiti con Roma, perchè ne erano lo specchio. E quello che li unisce nell'odio, è quello che, mancando, vorrebbero, perchè dopo un traguardo si guarda avanti, e anche i popoli lo fanno. Che succederebbe se, all'improvviso, non avessero più un nemico da odiare? Magari guarderebbero che il loro malessere dipende anche da chi li governa non bene, da chi fa gli interessi di pochi al loro interno, da chi li controlla bruciando le bandiere del nemico. Magari vorrebbero essere felici su questa terra, prima che nel paradiso.
L'arma atomica della guerra che si sta combattendo si chiama cultura. Ma non sappiamo come poterla sganciare al di là di questo mare.

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